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STEFANIA FABRIZI, “CAMERA NIGRA”
aprile - maggio 2004
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 "CAMERA NIGRA"
Carlo Fabrizio Carli
"Camera nigra": Stefania Fabrizi ha attribuito un titolo dall’evocazione goyesca e vagamente alchemica al gruppo di 11 grandi tele che si espongono in questa occasione. Più che una mostra tradizionale, costituiscono una vera e propria installazione appositamente ideata dall’artista per l’insolito ambiente espositivo dove i teli dipinti spiombano liberi dal telaio, con un effetto che evoca la più elementare versione dello schermo per proiezioni cinematografiche.
La formula "camera nigra" allude, così, a quella sorta di cripta sotterranea in cui si discende (atto che conserva sempre una valenza iniziatica) per venire, via via, avvolti dalle immagini pittoriche; ma si riferisce pure alla circostanza per cui - con soltanto due eccezioni, di cui si parlerà più avanti - i dipinti sono eseguiti facendo ricorso al perentorio quanto evocativo monocromo nero su fondo bianco. Stefania Fabrizi, interprete di primo piano di una riscoperta pittura d’immagine (ma non revivalistica! ed è forse lecito scorgere in tale attitudine la lezione del suo maestro all’Accademia, Alberto Ziveri), attende ancora una volta ad indagare quello che è da sempre il tema centrale e coinvolgente della sua pittura: il volto e il corpo umano. Basti pensare al noto ciclo degli atleti e dei pugili, immagini di grande forza che del suo lavoro sono un poco assurte a cifra connotativa.
Riflessione che intreccia storia e contemporaneità, il museo e le acquisizioni della tecnica; la dimensione meditativa e la concitazione dell’ordinario esistenziale. L’artista avverte tutto il fascino della classicità, ma sente pure di non poter prescindere dagli scenari visivi attuali, a cominciare dall’eco suscitata nell’immaginario collettivo degli spettacolari effetti speciali del cinema.
Tra le diverse immagini (dal punto di vista dell’esecuzione pittorica, si tratta di tecniche miste: terre associate al pastello, quest’ultimo impiegato perloppiù nelle lumeggiature, con effetti quasi di fluorescenza) della mostra sarebbe inutile cercare delle relazioni; tanto ciascuna di esse afferisce a situazioni lontane l’una dall’altra. Tra le schegge di un universo visivo ormai disintegrato, ridotto in frammenti - sembra volerci dire l’artista - l’unico legame possibile è quello che rimanda al succedersi serrato dei flashes o più ancora allo zapping televisivo. E non è davvero una circostanza peregrina: Stefania Fabrizi considera infatti quel divagare da un canale televisivo all’altro, con disposizione tanto nevrotica che indolente, un gesto coerentemente indicativo della nostra condizione dispersiva, emblematico del gran bailamme di questi tempi "senza centro". La mostra/installazione è introdotta da un colossale volto (alto oltre 3 metri) di giovane bendato; un dio ragazzo - si può ipotizzare -, icona solare, dalla suggestione potente, che impersona l’epifania della bellezza classica. Il volto emana una sorta di misteriosa irradiazione, di arcana luminescenza, ed ha, appunto, gli occhi coperti da una benda: per sottolinearne la dimensione introspettiva, la vocazione ad un’attitudine "altra" - forse la poesia, probabilmente il sacro (dove c’è il mistero c’è immancabilmente un indizio di trascendenza) - rispetto ad una quotidianità dispersiva. Di sicuro, si comprende come gli occhi - lo sguardo -, liberi o velati, assumano per Stefania Fabrizi un rilievo fondamentale, costituiscano il fulcro catturante, quasi ipnotico, dell’intera immagine dipinta.
Affine è l’attitudine di Congiungimento, figura assisa che levita dal suolo, assorta in uno stato atarassico (e le colature sono appunto come le tracce del distacco da una condizione di ordinaria umanità); e forse di "I nostri eroi", ritratto di gruppo di gente comune, veri cloni di un’ordinarietà esistenziale, tutti con il volto bendato, allusione, in questo caso, forse più che alla dimensione contemplativa, alla generalizzata unidimensionalità di scelte culturali. Ma già con I Giustizieri, una sorta di "angeli necessari" (e laici: la loro iniziale ideazione fu appunto suggerita a Stefania Fabrizi dal saggio di Massimo Cacciari) - provvisti di occhi che diffondono una luce fredda, intensissima, e di aste anch’esse luminose - la fonte ispiratrice si sposta su certi effetti da fantasy cinematografico, tipo - per intenderci subito - "Il Signore degli Anelli" che, piaccia o non piaccia, li si consegni quanto si vuole alla dimensione del kitsch, hanno comunque lasciato una traccia profonda negli scenari visivi contemporanei, ed è ormai impossibile ignorarli, se si intende evitare il rischio di un astratto e estenuato accademismo. Ecco tre uomini dallo sguardo ambiguo - dei veri malavitosi, sulla falsariga degli stereotipi massmediali, evocati dall’artista con una sfumatura di ironia - intenti a osservare l’orologio che emana una luce misteriosa (Ora X); ecco un gruppo di ragazzi del tutto comuni, se non fosse per l’anomalo ricorso a certi occhiali da visione tridimensionale, da ologramma di realtà virtuale (Vedo nero). Talvolta Stefania Fabrizi tocca il tasto lieve, perfino ironico, con una coppia di ballerini infervorati nella danza (Balla che ti passa); o invece accede al registro di un’attitudine più seria, mediante un’immagine di un altro gruppo di ragazzi (Cheese!), che è poi una reminiscenza di un viaggio a Cuba, dell’impressione incancellabile - seppure trasferita nella dimensione temporale della memoria, fatto cui allude il disgregarsi dell’immagine nella parte inferiore della composizione - di questi ragazzi poveri e felici, interpreti di una gioiosa accettazione della vita, come sembra non essere più possibile nel ricco Occidente; ovvero con un gruppo di donne velate (Mie Madonne), poco importa qui se si tratta di contadine del nostro Meridione o di presenze dell’Islam munite del tradizionale chador. La pittrice intende trasformarle in una sorta di ieratiche icone sacrali, di innalzare per loro tramite un inno alla donna, alla condizione femminile. Fin qui si tratta, appunto, soltanto di monocromi neri su fondo bianco; ma, in due casi, il colore emerge prepotente e perfino lacerante: ecco i battenti della celebre processione di Guardia Sanframondi (Mi trema il cuore), con il rosso sangue delle piaghe che si i penitenti incappucciati si producono, percuotendosi il petto con delle pietre. Ma il dramma di questo rito crudele, della sacra rappresentazione itinerante è anch’esso destinato a lasciare subito il campo ad un’attitudine diversa: il monocromo verde di Hulck (Contrariato!) registra col balzo ammiccante del gigante infuriato, una nuova affermazione dell’immaginario del cartoon (ed è superfluo ricordare quanto importante sia stato l’influsso del fumetto sull’arte recente, dagli anni ‘60, e dalla Pop, in avanti). Il tutto a ribadire - si è già anticipato - un’interpretazione della contemporaneità quale diorama di immagini - e di realtà, di valori -, certo seducenti ma circoscritti a frammento. Emblema e contrassegno di fragilità di una condizione postmoderna: intendo di un assetto culturale e di un’epoca che hanno dovuto prendere atto dell’entrata in crisi irreversibile delle certezze ideologiche e sistematiche della modernità.
RADICI NEL FUTURO

Alessandro Riva

Da quale strano passato provengono i guerrieri metallici di Stefania Fabrizi? Di che pasta è fatto, di quale materia, di che consistenza, e a quale mondo appartiene il gigantesco Hulk che Stefania ha fatto sgocciolare sapientemente sulla tela? A quali memorie, a quali riferimenti sono legati i suoi men in black che impazientemente aspettano, orologio alla mano, un’improbabile quanto ormai pochissimo attesa (giacché in fondo tutti sappiamo che è già scattata da un pezzo) "ora x" del nostro pianeta? E ancora: chi diavolo saranno quei giustizieri, metà Signore degli anelli e metà eroi novecenteschi, che paiono attendere solo il momento di entrare in azione? E da che pensiero recondito salteranno mai fuori quei mistici flagellanti che sfilano, in un impeto di malata religiosità ipercontemporanea, di fronte al nostro sguardo sbigottito? Le domande che si affacciano alla mente guardando i nuovi quadri di Stefania Fabrizi non nascono per caso. Tutti sappiamo che, nel mondo contemporaneo, si tende ormai fatalmente a mescolare senza apparente coerenza passato remoto e recente, presente e futuro, memorie individuali e collettive, riferimenti alti e iperpopolari, personaggi storici e fiction - e così via all’infinito -, secondo una lezione imparata a memoria (e ciucciata col latte dagli artisti nati nei "formidabili" Settanta) negli anni d’oro del postmodernismo. Stefania Fabrizi non fa eccezione a questo quadro. Tuttavia, la sua personalissima postmodern reality presenta alcune caratteristiche che ne fanno un caso molto originale nel pur variegato panorama pittorico italiano contemporaneo. Stefania Fabrizi ha infatti saputo ripartire dalla matrice classica e non di rado monumentale dell’arte italiana del Novecento, proprio nel momento in cui gli altri artisti sembravano rifuggire come la peste il rischio della retorica, dell’altisonante e del grandioso. E’ ritornata al carattere eroico italiano, innestandolo però su un humus e su una sensibilità contemporanee, e contaminandolo (parola ormai fatalmente fuorimoda) con il gioco saputo e colto della retorica da strapazzo dei filmoni hollywoodiani, della fantasy d’accatto e d’importazione, del misticismo da magazine popolare. Ecco allorea che i vincenti (solo virtuali) dell’impero da operetta di ieri del ritrovato (e presto riscomparso) orgoglio italico, di quel popolo di poeti, eroi e navigatori di cui si parlava neanche un secolo fa, oggi si rinnesta, tra il serio e il faceto, sulle fanfare ed la retorica un po’ macchiettistica delle megaproduzioni hollywoodiane e dei cartoni per bambini che insegnano ai guerrieri di domani l’arte del politicamente (e militarmente) più forte, sulla sensibilità esasperata del nuovo misticismo pagano e quotidiano, quello delle guaritrici televisive e dei flagellanti da soap opera. Stefania Fabrizi fa parte a pieno titolo di questa generazione, ed è, a Roma, una di quelle che hanno saputo meglio interpretare questa fusione di stili e di sensibilità così apparentemente distanti eppure così felicemente amalgamabili. I suoi boxeur, i suoi replicanti, i suoi metallici guerrieri di non si sa più quale guerra (passata o presente?), strani eroi monumentali di un’epoca che pare sospesa tra un passato non poi tanto lontano e un futuro quanto mai prossimo, sono infatti la testimonianza visiva, più che mai colta e raffinata dal punto di vista del pastiche linguistico e della tecnica pittorica, dello scarto che esiste tra la nostra intima necessità di recuperare le nostre radici identitarie e culturali - radici che da troppo tempo ci avevano fatto credere fossero dimenticate, fatalmente perdute - e la nostra necessità di combinare stili, linguaggi, riferimenti a quella cultura contemporanea con cui siamo cresciuti e con i quali conviviamo giorno dopo giorno, dalla cinematografia al fumetto alla letteratura, senza più differenze tra arti alte e basse, tra politicamente corretto e scorretto, tra lecito e illecito, tra serietà e divertissement.