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GONZALO ORQUIN, “ESPEJO ROMANO”
maggio - giugno 2006
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RITRATTO DELLA PITTURA

A colpo d’occhio il lavoro di Gonzalo Orquin sembra voler superare la soglia del post-moderno verso qualcosa di nuovo, o verso qualcosa di molto molto vecchio. Indefinibile non solo per quanto riguarda il nome della corrente a cui apparterrà, ma anche per le “garanzie” che il giovane pittore sembra mettere sul tavolo e sulla parete. Arrivati oltre al famoso divorzio tra pubblico e artista, Orquin, risolve l’interrogativo della Pittura facendo notevole ricorso ad una tecnica d’altri tempi, e teniamo presente che per ricorrere al lontano passato purtroppo non basta avere voglia di farle.  La diafana corposità dei suoi dipinti si avvicina curiosamente alla fruizione satinata di un affresco, che non a quella che ci si aspetta dal lavoro di un ventiquattrenne. Nessuna traccia di pop, e questo ci solleva. Colpisce inoltre come questi dipinti si presentino come opera di un pittore “forte” e per usare l’aggettivo con cui Harold Bloom classifica i poeti ambiziosi, e appunto l’apparente assenza di Modelli e Influenze. Prodezza improbabile considerati mercato e storia dell’arte. Ma se si può parlare di un gusto generazionale verso  una pittura più realistica di recente risorto, possiamo comunque permetterci un leggero stupore davanti a queste opere. La tecnica esposta su questi quadri indurrebbe a influenze troppo distanti nel tempo e nella qualità per essere tranquillamente nominate. Fino al punto di permetterci di affermare che questi sono ritratti di una Pittura. Orquin non usa fotografie, proiezioni, ingrandimenti, sotterfugi, ma persone vive. Il braccio teso di un Icaro quasi pietrificato dentro al suo involucro corporeo sembra sì  possibile da afferrare. Potremmo quasi impedire che scivoli giù oppure quasi aiutarlo a entrare dalla finestra. Appunto notevole senz’altro il gioco estetico dentro al quadro: decolla o atterra? È fredda o calda quella sua pelle. In un dipinto volutamente incentrato sull’estetica – e la posa del modello suggerisce l’acrobazia del pittore nel  eseguirla – seduce persino l’attenzione usata per redimere le antenne tv. È la stessa che un realista d’altri tempi avrebbe prestato ai rami di un albero. Il mondo contemporaneo compare non solo nei volti privi di pensiero, ma nei suoi temi. La coppia svogliata rimanda ad una sessualità purtroppo attuale, indotta e priva di legami emotivi. Nonchalante, provocatoria o raffinata “l’inquadratura” che gioca a mozzare la testa della ragazza come in una cattiva fotografia.Pensando all’aplomb misto casual e regale delle piccole teste ornate, non dalle gorgiere inamidate, ma da patinate tute da ginnastica, cosa si evince se non la commistione tra classico e presente che caratterizza da sempre l’arte che non ha remore ad essere seria? Un'altra caratteristica not-post-modern di questo autore: la materia pittorica non presenta tracce di quell’ironia onnipresente nel gusto del Mercato, che ha, infondo, come primo compito quello di  apporre le virgolette attorno ai temi trattati, sospendere i giudizi. Questo pittore se sospende giudizi, lo fa solo perché tende ad uno sguardo imparziale. Una mano tragica, la sobrietà di questi colori forse rivelano un gusto, uno sforzo verso un prodotto maturo che ambiguamente ci rivela quanto è giovane l’artista. Ma allo stesso tempo ci sfida. Sembra confessare: la tecnica ha il sopravvento ancora… ma guardatela. Che tecnica.

Penetrando questa atmosfera, queste figure, davvero percepiamo un romantico miscuglio tra il mito e la realtà? Ma dove finisce il gusto estetizzante, evidente persino nel titolo di un Icaro? E dove comincia un mondo contemporaneo di pc e chat? Omogenee le due sponde si confondono. Gli amanti svogliati chi sono se non gli adolescenti d’amore di sempre. Giusta allora Roma, allo sfondo di questo gioco. Si chatta su pavimenti di marmo. Ma ci si pianta sopra fermamente, scalzi: i piedi dell’artista sono un autoritratto. Il giovane immerso nell’ozio virtuale non è soltanto una raffigurazioni dell’oggi, tassello cruciale del nuovo comportamento che tende un braccio alla tradizione. Dentro lo sviluppo pittorico di Orquin è senz’altro una vetta di maturità naturale. Il giovane nel dipinto non è solo stanco, assuefatto dal proprio portatile, in un solare ambiente romano. Per usare un luogo comune appunto d’altri secoli “sembra vivo”. Respira rilassato. Suggerisce lo sviluppo dell’artista – la mia è sia una constatazione che un augurio – , riuscire a piegare questa tecnica, sin da adesso pregevole, verso una ritrattistica che riesca a penetrare l’umano e la sua emozione. E ben venga tutto l’anacronismo necessario!

Claudio Nigro

 Roma, 25 aprile 2005

Gonzalo Orquín tra dramma e desiderio

Alessandro Riva

Il nocciolo duro della poetica di Gonzalo Orquín sembra giocarsi tutto in un misterioso luogo mentale, un luogo apparentemente inesistente, insieme fortemente ideale, di strana sospensione del tempo – il luogo della pittura per eccellenza, dopotutto - e tuttavia stranamente reale, quotidiano, un luogo che esiste chissà dove e qui e ora, hic et nunc, un luogo nel quale si mescolano vita quotidiana e senso del teatro, intimismo e memoria, illusionismo e senso del tragico, riferimenti alla pittura classica (uno su tutti, il grande amore per la pittura di Velazquez) e citazioni dall’immaginario cinematografico contemporaneo, vita vissuta e solo immaginata, paura ed estasi, gioia pura e in sottofondo quel dolore vago, mai chiarito del tutto, che ci prende alle volte all’improvviso, e ci stringe la gola, e non sappiamo perché. La pittura di Gonzalo Orquín ci parla di intimità e di inquietudine, di strane scene che ci sembra di conoscere a menadito, che abbiamo pur visto o vissuto, forse in sogno, forse una domenica mattina di tanto tempo fa, con qualcuno che amiamo o abbiamo amato al nostro fianco, che dorme ancora, o che forse si trova in quello stato misterioso che sta tra il sonno e la veglia; ci parla, questa pittura, di quella sensazione di quieta ebbrezza, di gioia sottile venata però da uno strano senso di inquietudine, di dolore anche, vissuta come in una strana sospensione del tempo, quella sensazione che ci attanglia quando siamo da soli, drammaticamente soli con noi stessi eppure, per una volta, anche disperatamente felici di esserlo: momenti e istantanee di quegli “attimi di assoluta beatitudine” (Dostoevskij, Le notti bianche) in cui noi, per qualche strana alchimia, non siamo più noi stessi, in cui la nostra vita, i nostri gesti, la luce irreale che filtra da una finestra aperta, il nostro stesso corpo pare, per un momento soltanto, sospeso in un istante di puro teatro, in un flash back cinematografico: è quell’istante magico in cui noi stessi ci sentiamo fatalmente strappati fuori dalla banalità delle cose quotidiane – con le loro noie, i fastidi, le incombenze, le commissioni sempre rimandate, le bollette e gli affitti scaduti – per entrare, per un momento solo, in una dimensione diversa, più leggera, più aerea, tragica e dolcissima allo stesso tempo – quella della pittura, infine, ma anche del grande cinema, della letteratura, del teatro.

La tradizione cui guarda Gonzalo Orquín è quella del realismo spagnolo dell’Otto e Novecento, certo, ma anche quella del Seicento e del primo Settecento, con il suo senso del tragico, dell’estasi, della teatralità e del travestimento, con le sue scene di vita quotidiana, i ritratti di un’epoca, le dimore, i vestiti, gli orpelli, e d’improvviso l’insorgere di un dramma, il dolore, l’estasi, il tormento: è l’irrompere sulla scena del mito, della condizione suprema del dramma, dramma vero o immaginato, teatralizzato o dipinto: e proprio come in certa tradizione del realismo del Novecento, anche nella dimensione di un’assoluta fedeltà all’evidenza delle piccole cose quotidiane – un divano-letto, un pavimento a mattonelle colorate, lo stipite sbrecciato di una finestra, la tappezzeria un po’ vistosa d’una poltrona, insomma gli elementi che ci circondano ogni giorno e a cui spesso non facciamo neanche più caso – diventano gli accessori solo apparentemente banali d’una grande, inesausta composizione totale: quel grande puzzle formato dai quadri, dai disegni, dagli schizzi, insomma dall’intero universo mentale dell’artista, che s’intravede dietro ogni quadro come in filigrana; elementi che fanno da sfondo alla dimensione mitologica della nostra vita quotidiana, come muti ospiti d’una commedia che rischia sempre di volgersi in dramma, in un angolo di una stanza perfettamente illuminata da quella luce tagliente e teatrale che si trova solo sui set dei grandi registi e in qualche istante di metafisica realtà domestica. I gesti, i movimenti, i dialoghi muti dei protagonisti di questa comedie humaine insieme pittorica e fortemente teatrale posseggono infatti una loro forza straordinariamente metaforica, appaiono come i simboli di inquietudini, di parole non pronunciate, di sentimenti rappresi, di pensieri e sentimenti rimasti impigliati nella dimensione fluttuante dell’inconscio o della memoria. Quel dito puntato sul petto d’un ragazzo anonimo, qualsiasi, proprio all’altezza del cuore, che ci ricorda i gesti di tanta pittura sacra – in primis l’iconografia del Sacro Cuore di Gesù -, ma anche il torcersi flessuoso su una finestra di un giovane e contemporaneo Icaro – torsione tutta manierista, o barocca – fa venire istantaneamente alla mente le contorsioni del corpo del Cristo (estasi e dolore, appunto) nelle Deposizioni cinque e seicentesche, così come il corpo abbandonato del ragazzo in una qualsiasi scena di coppia, après l’amour, in un interno piccolo-borghese di un anonimo appartamento di oggi, ricorda i tanti corpi straziati, martirizzati, abbandonati, dei martiri cristiani nell’iconografia religiosa, o ancora quello del Cristo nell’iconografia della Pietà. Ecco che, allora, d’improvviso si comprende come il terreno su cui si muove la pittura di Gonzalo Orquín sia quello, alquanto scivoloso ma affascinante, della poesia del quotidiano, dove si mescolano la nostalgia per qualcosa – un paesaggio, una teoria di alberi in lontananza, o uno scorcio dei tetti di Roma, o ancora la sagoma scura di qualcuno che dorme nella penombra d’un pomeriggio d’inizio primavera -, ma anche il rimando continuo e incessante alla nostra memoria storica, religiosa, filosofica, il rimando a quel crogiuolo di memorie e di suggestioni di cui è fatta la nostra cultura più profonda, ancestrale, su cui siamo cresciuti e di cui ci siamo imbevuti, nella quale si mescolano nostalgia e senso del bello, estasi e dolore, piacere e senso di colpa, dramma e desiderio.