Le Case
Design
Mostre
Contatti
STUDIO ANDREA GOBBI
Via dei Lucani 33/A
00185 ROMA
Tel/Fax +39-06-44340151
andreagobbi@tiscalinet.it
C.F. GBBNDR67H13E897T
FABRIZIO PASSARELLA, “BOLLYMOOD”
ottobre - novembre 2003
Galleria | Esposizione | Bibliografia 
 
Andrea Gobbi e the galleryApart

presentano

FABRIZIO PASSARELLA

in

BOLLYMOOD

 Lo Studio Andrea Gobbi inaugura la stagione espositiva con la personale dell’artista bolognese Fabrizio Passarella. A due anni dalla retrospettiva dedicatagli dalla Temple University rome, Passarella torna nella capitale per presentare BOLLYMOOD, un progetto che raccoglie le idee, gli spunti e le ispirazioni di oltre una anno di lavoro e di approfondimento su suggestioni che da sempre accompagnano il cammino dell’artista, che ha fatto del confronto interculturale lo strumento privilegiato per conseguire il massimo grado di conoscenza e di consapevolezza del proprio essere e della società in cui si colloca.  BOLLYMOOD richiama le due più imponenti industrie cinematografiche del pianeta, quella americana di Hollywood e quella indiana di Bombay, ciascuna specchio di culture apparentemente distanti ed inconciliabili, ma in realtà entrambe fonti di icone universali in grado di toccare sensibilità ad ogni latitudine, tanto da spingere ogni società a crearsi il proprio firmamento di stelle e di sogni. Come scrive Gianluca Marziani, Passarella si dimostra “artista filmico capace di inventare icone perfezionate che contengono uno scorcio narrativo dietro ogni singola immagine. La sua figurazione è così finzione sopra la finzione per richiamare i lati impossibili del cinema. E inventarsi derive visuali che montano scene e dettagli in uno sguardo bidimensionale ma architettonico. (…) Passarella tramuta la sua pittura in un montaggio dissonante ma intonato, (…) dispone i volti divistici (Marlene Dietrich, Anna Magnani, Montgomery Clift, Brigitte Bardot, Totò, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Rita Hayworth, Marcello Mastroianni…) assieme a scritte di varia provenienza, pubblicità, immagini retoriche da cartolina, animali, fiori erotici, illustrazioni popolari, teschi, gemme preziose, esili feticci, buste del thè, frutti aperti, strumenti musicali”. Fabrizio Passarella è nato a Contarina (RO) nel 1953 e vive e lavora a Bologna. Dal 1983, anno della prima personale, ha esposto in gallerie private e in spazi pubblici e museali in Europa e nel Medio Oriente. Tra le principali mostre personali, L’Immagine elettronica, GAM Bologna, 1985; Itinerari, Musei civici di Reggio Emilia, 1995; La luna, la croce, la stella, Palazzo Fizzarotti Bari, 1995; Worlds in small room 1981-2001, Temple University Rome 2001; nonché le mostre presso le Gallerie Inga Pin di Milano, Studio Cristofori di Bologna, Studio Carbone di Torino, Ruggerini e Zonca di Milano, Placentia di Piacenza. Tra le mostre collettive, da ricordare Italia 90, Ipotesi arte giovane Fabbrica del Vapore Milano, 1990; AnniNovanta GAM Bologna, 1991; Medialismi, Villa d’Este, Tivoli, 1992; Medialismo, Trevi Flash Art Museum 1993; Così lontano così vicino, Pinacoteca provinciale di Bari, 1994; Icastica, Galleria Comunale d’Atre Moderna di Bologna, 1994; Ritratto Autoritratto, Trevi Flash Art Museum 1994; XII Quadriennale di Roma 1996; Arte italiana Ultimi quarant’anni,GAM Bologna 1998; Effimera, Villa delle Rose Bologna, 2002.

Inaugurazione domenica 26 ottobre – breakfast ore 11.

Chiusura mercoledì 26 novembre

 Catalogo disponibile

 Studio Andrea Gobbi, Via dei Lucani 33/A – 00185 Roma

dal martedì al venerdì ore 16–19 o su appuntamento

Tel e fax: 06-44340151  e-mail:

SIGNORE E SIGNORI, THIS IS BOLLYMOOD!!!

Gianluca Marziani

Scorrono fiumi di pellicola impressa, milioni di frame che contengono la memoria culturale di un paese, di un’epoca, di una storia tra realtà e finzione. Il Cinema, linguaggio bello e possibile, comprime il mondo per esprimere gli umori, le tensioni, l’emozione del frangente in cui il set diventa quel paese, quell’epoca, quella storia di stupefacenti invenzioni. E allora si divarichino gli occhi tra Stati Uniti e India: contraltari nazionali in cui la realtà collettiva si rispecchia nella finzione del film popolare. Da una parte la Los Angeles mediatica di Hollywood, dall’altra l’India bollente di Bollywood. Da un lato il cinema dei tycoon iracondi, delle star patinate, del divismo da esportazioni internazionali. Quel mondo californiano dei romanzi di John Fante, descritto con sagacia e acido nel suo “Sogni di Bunker Hill”; di Robert Altman che ne afferra la perversione mondana col thriller anomalo “The Player”; di tanto cinema e letteratura che intingono occhi e dita nello sperma velenoso del successo. Dall’altra una cinematografia indiana che sforna migliaia di prodotti ma non esce quasi mai oltrecortina, alimentando un gigantesco soapcinema che diffonde la filmnovela nelle sale disponibili. In mezzo a loro Federico Fellini, collante oltraggioso che ha aumentato la profondità sentimentale di Hollywood nei set concettuali di Cinecittà, tra la libidine del grottesco e la passione per i corpi carnali, eccessivi, teatralmente periferici e circensi. Il suo cinema codifica la sottile pellicola su cui Hollywood incontra Bollywood: un diaframma di passioni tra maschere umane che già stanno nelle nostre città, nelle nostre vie, nei nostri pianerottoli. Protagonisti e comparse felliniane ci portano col pensiero ai melò musicati del lungometraggio indiano, ai divi da locandina pittorica tra brandelli di popolazione sgangherata e ridanciana. Il talento scenografico e registico, invece, rimanda alle professionalità geniali degli anni Sessanta, quando Hollywood e Cinecittà, ma anche i set di Bombay, schieravano scuderie ancora imbattute per estro, maestranze ed organizzazione. Crescono così, nel sacro fuoco di celluloide popolare, alcune icone tra leggerezza estrema e tristezza elegante. Totò, Marlene Dietrich, Marcello Mastroianni, Montgomery Clift, Gina Lollobrigida, Rita Hayworth, Anna Magnani, Brigitte Bardot, Sophia Loren… e poi alcuni volti del cinema indiano di ieri ed oggi, pezzi che sono il substrato filmico di un’industria gigantesca per il più delirante sogno collettivo mai concepito.

Bollywood, ovvero, novecento film ogni anno per settanta milioni di spettatori a settimana e undicimila sale cittadine. Bollywood significa film girati nei megastudios di Bombay in lingua hindi. A questi si aggiungono i grandi studi a Madras e Hyderabad, le industrie del Tamil Nadu e del Bengala. Una massa di cinematografie che testimonia la ricchezza di tradizioni e cultura del subcontinente indiano, composto da sette territori e venticinque stati nei quali coesistono quindici lingue riconosciute. Ma accanto ai film d’ispirazione più popolare, quelli che hanno reso epica Bollywood, si aggiunge un cinema colto che arriva dal Sud o dall'Est del Paese. Nato negli anni '40 dalla ricetta Masala (amalgama di spezie) che mescolava componenti del musical americano a temi della mitologia hindi del Ramayana e del Mahabharata, Bollywood ha vissuto il suo massimo splendore tra i '70 e gli '80, offrendo, con le sue storie d'amore, le musiche suadenti e le danze indiavolate, un mondo di sogno ed evasione. Poi, dopo la pesante crisi degli anni ’90, torna al successo grazie ad alcune tematiche sociali che attraggono il pubblico giovane e politicizzato, o grazie a registi di nuova generazione che contaminano le vicende in modi sempre più internazionali.

Hollywood più Bollywood… e una storia reale si trasforma in un mood mentale, un flusso di extravisioni sopra la pellicola della creatività pittorica. BOLLYMOOD rappresenta il cinema della pittura sopra il cinema delle pellicole. Mentre la narrazione scorre, dinamica e acidula nei proiettori da grande sala, i piccoli strumenti del pittore creano lo storyboard definitivo di un cinema che si ferma alla singola inquadratura. Un ARTISTA FILMICO inventa icone perfezionate che contengono uno scorcio narrativo dentro ogni singola immagine. La sua figurazione è così, finzione sopra la finzione per richiamare i lati impossibili del cinema. E inventarsi derive visuali che montano scene e dettagli in uno sguardo bidimensionale ma architettonico. La definizione di artista filmico vale per Fabrizio Passarella, convinto che la pittura sia il metabolizzatore privilegiato delle distanze colmabili. Per lui il problema non riguarda il linguaggio, cosciente che la pittura sia uno strumento auratico che resiste quanto il cinema: perché solo il dipingere, come la cinepresa sul set, fissa l’immaginario con una tensione che rimastica il disegno, la fotografia, il teatro e lo stesso cinema.

FABRIZIO PASSARELLA ricrea a Bollymood una visione trasversale della cultura figurativa. Parte dal suo mondo usuale, quello dove le distanze si misurano sulla dinamica della fusione, di una riuscita combinazione tra linguaggi e forme distanti. Chiamiamola MELTING POP per ricordare come i fatti denotano la recente realtà del combinare linguaggi. Uno scarto ulteriore rispetto al noto contaminare: perché ieri le creatività si incontravano in modo eccitante ma non sistematico; perché ieri non esisteva una cultura digitale che ha estremizzato le fusioni; perché ieri si concepivano “alto” e “basso” in forme meno radicali; perché oggi ci siamo sbarazzati dei vincolanti dilemmi ideologici; perché oggi la cultura pop persevera e si riproduce con magniloquente magnetismo sociale; perché oggi trionfa la coscienza di un mondo totale a portata di scambio continuo.

BOLLYMOOD nasce dove la combinazione diventa matura, dove la consapevolezza delle diversità segna il culto mediatico della fusione. Passarella tramuta la sua pittura in un montaggio dissonante ma intonato, stridente eppure funzionale, armonico nel suo divagare tra fondali, volti, oggetti, frasi, colori. Immaginiamo un set pittorico in cui le superfici pulsano con le loro griglie optical, emanando una geografia lisergica che mette Hollywood, India e Italia sullo stesso destino semantico. Sopra le stilettate cinetiche vagano i segnali, sparsi ma mai dispersi, di uno sguardo che sperimenta la rottura di qualsiasi dogana culturale. L’artista dispone i volti divistici assieme a scritte di varia provenienza, pubblicità, immagini retoriche da cartolina, animali, fiori erotici, illustrazioni popolari, teschi, gemme preziose, esili feticci, buste del thè, frutti aperti, strumenti musicali. Crea un organismo dove il contrasto irreale è solo nell’apparenza, nei limiti culturali, nella chiusura della fantasia. L’esperienza quotidiana, d’altronde, ci insegna la plausibilità di qualsiasi accostamento. I cartelloni sovrapposti inventano spot anomali tra l’assurdo e l’innovativo. Lo zapping televisivo monta frammenti con cui diamo nuovo senso al blobismo soggettivo. La scaletta di un telegiornale accosta diversità sociali, geografiche ed emozionali. E poi c’è il web con la sua mole sconfinata di giustapposizioni sempre diverse, sempre più radicali, sempre più extrareali.

Prendiamo come esempio un pezzo della mostra. Un giovane Mastroianni compare al fianco di una ragazza indiana, mentre il logo di “Otto e mezzo” campeggia tra sfere volanti, una scritta indiana, un’immagine religiosa e un veicolo in stile taxi d’oriente. Questa e le altre opere sono un nomadico flusso trasversale, una struttura di cartelle aperte con la stessa filosofia anarchica del web. Toccherà a noi decodificare qualche senso, inventare resoconti e relazioni, creare un possibile andamento interiore. La composizione si distribuisce tra il rebus a soluzione cerebrale e un fascinoso melting pop che sconfina dove chiama il desiderio. La pittura si tramuta così in un prontuario emozionale che guida la selezione e l’incastro degli elementi. Alla fine, invenzione dopo invenzione, tutto torna poiché già esiste nella combinazione soggettiva del presente.

Allo Studio Andrea Gobbi il progetto si distribuisce sopra il rigore essenziale della carta. Il supporto assorbe l’acquerello e le altre note liquide, i picchi cromatici e le morbide sensualità del tocco, sommando tecniche antiche dai risvolti eterni. La composizione iniziale si struttura attraverso un collage elettronico di elementi reali e archetipici. Il progetto definitivo, poi, passa alle sinfonie del disegno e della pittura. Una manualità quasi monastica che imprime un perfezionismo iperreale alle composizioni. Senti l’integrità di uno stile che emana sapori digitali, perfezionistici nelle stesure calibrate e presenti. Ma al contempo identifichi il timbro di Passarella, il suo consueto talento figurativo, la scivolosità di una mano generosa che vuole l’umanità calda del segno.

Siamo davanti alla mostra e al catalogo. Un’opera, prologo vincente al tutto, diventa locandina e introduce al Bollymood del viaggio cartaceo. Dietro di lei due serie parallele e dialoganti: da una parte i piccoli racconti colorati, una specie di plot narrativi per disvelare la trama del nostro film, quello che ognuno interpreta dietro facce e feticci; dall’altra i ritratti in bianconero che ingigantiscono il volto di alcune protagoniste. Da soli o in serie aumentano la tensione divistica per disvelare la fascinazione di facce che sono icone pittoriche, storie oltre lo spazio/tempo che appartengono ad un immaginario di patina e sogno replicabile. Il bianconero sottolinea quella tensione quasi astratta, mescolando la memoria del dagherrotipo con la sintesi digitale del monitor. Un dettaglio, poi, ribadisce la natura iconografica, e non più solo mediatica, del volto che è ormai pura icona: si tratta di un elemento rosso (su una o più parti del quadro) che campeggia nei ritratti, proprio come fece Steven Spielberg col corpo innocente di “Schindler’s List”. La natura assoluta del bianconero, a differenza del colore, sgancia l’opera da una collocazione specifica e la lascia galleggiare in una memoria collettiva che aiuta l’empatia col fruitore. Una cromia primaria, quel rosso che si marmorizza dentro la memoria, invade la geografia coloristica come un segno di contemporaneità elegante, sempre più mentale.

Rosso: come il sangue del cinema, come la passione dei protagonisti, come il pulsare delle emozioni filmiche, come la luce che accende il proiettore. Come il punto fisso che guida l’ossessione di un artista intuitivo, presente al proprio passato e al proprio futuro. Presente a se stesso e al mondo che modifica le nostre intenzioni.

Tutto è possibile qui dentro. Anche l’apparire di una Moira Orfei che fonde Hollywood e Bollywood, aggiungendo molto Fellini da Romagna prosperosa, la televisione del delirio e tutto il kitsch che amiamo. Le sue labbra, rosse ed accoglienti, baciano il lato meno nobile di ogni sguardo ben disposto. Si imprimono sulla pelle di chi mescola il dolce nel salato, il nero nel bianco, il bello nel brutto, il buono nel cattivo…

Lingue, culture, eventi, feticci, sentimenti, emozioni… tutto si combina in una mirabolante sequenza narrativa. Il cinema vive ora dentro la pittura, dentro un dipingere che scorre, zingaro ed universale, nel singolo frame. E allora, signore e signori, This is Bollymood… ovviamente!!!