“Cose di Testa”
Mostra Personale di Paolo Fiorentino
Testo in catalogo di Duccio Trombadori e un racconto di Alessandra B. Bocchetti
A cura di Andrea Gobbi e Antonella Lentini
Con la personale di Paolo Fiorentino , lo Studio Andrea Gobbi intende inaugurare gli appuntamenti per il nuovo spazio espositivo di Siracusa. L’ Artista romano ( vincitore del prestigioso Premio Michetti nella passata stagione ) ha realizzato circa una dozzina di opere su carta di varia dimensione eseguite con tecnica mista sul tema a lui caro dell’architettura e delle teste. Scrive in proposito sul catalogo il critico Duccio Trombadori: “ Neoclassico per vocazione, il suo lirismo immaginoso affetta una ambizione stilistica da nazareno moderno che celebra una simbolica astratta sull’altare di figurazioni volutamente prive di contenuto. Si resta impensieriti di fronte al senso del grandioso e del tranquillo suscitato dalla teoria di monumenti inusitati, urbanità senza tempo e senza luogo, maschere umane sottratte ad ogni modello, e pure contornati come i calchi di tipologie preesistenti, se bene mai viste”. Il catalogo è inoltre accompagnato da un racconto di Alessandra B. Bertocci.
Inaugurazione sabato 19 Aprile 2003, ore 18.00; e sino al giorno 17 Maggio 2003
Studio Andrea Gobbi – Via Armando Diaz, 23 – 96100 – Siracusa
Tel/Fax: 0931-463008 – SI – 06-44340151 - RM
Orario: La Galleria è aperta dal martedì al sabato, dalle ore 10.00 alle ore13.00 – dalle ore 16.00 alle ore 20.00
GUIDA VELOCE
Racconto di Alessandra B. Bocchetti per Paolo Fiorentino
Guida veloce lungo la sopraelevata. La striscia d’asfalto si snoda davanti a lui, sinuosa, nascondendosi dietro gli alti edifici squadrati, per poi riapparire subito dopo. E’ solo, non c’è nessuno davanti a lui o dietro di lui, come al mattino presto, in quello strano momento che precede di poco l’alba e non dura mai a lungo, pur sembrando infinito, prima che dai palazzi dormitorio la gente si riversi giù, in strada, per andare negli stessi uffici, nelle stesse fabbriche, nelle stesse scuole di sempre. In questo momento è solo sua. Potrebbe fare qualsiasi cosa, potrebbe dare una svolta alla sua vita, potrebbe semplicemente continuare a guidare, in quest’attimo che pare non finire mai. Sospeso nella sua coscienza.
Palazzi, torri protese verso l’alto che assomigliano alle conchiglie che raccoglieva al mare da bambino; sulla sabbia ce n’erano a decine dopo le mareggiate, lasciate indietro dal mare. Ne prendeva più che poteva, poi s’incamminava verso il muretto calcinato dal sole, col sole negli occhi, e le lasciava lì, ad asciugare.
Le portava sempre a suo nonno quelle conchiglie, perché potesse toccarle e capirne –sentendo con le dita le diverse stratificazioni di calcare- la storia.
-Le vedi queste volute, questa spirale? –
-Si le vedo. –
-La loro costruzione è cominciata prima ancora che gli dei abbandonassero questo luogo. –
Sosteneva di non rimpiangere la vista, e lui gli credeva; fissava quelle orbite, cieche per aver visto troppo, e sapeva che era così.
-Ho solo rivolto lo sguardo all’interno, tutto qui. – Diceva, con la sua voce lenta, pacata. Gli accarezzava la testa, la tastava con delicatezza per riconoscerne le forme, le sue attraverso il tempo, e pian piano le labbra gli si stiravano in un sorriso.
-Ed io? Io che devo fare? – Gli chiedeva. Lui non poteva non saperlo.
-Tu? Tu devi guardare avanti a te; hai tutta la strada da percorrere. –
La strada é sempre davanti a lui, ancora intatta, ma c’è più luce adesso e la striscia bianca si staglia sull’asfalto nitida come i suoi pensieri. Ne ha la percezione esatta, la velocità non lo confonde, al contrario.
Le immagini lo assalgono: le vie, le piazze, i pochi alberi,. Il vecchio lo conduceva tenendolo per mano, sicuro. Non controllava mai la strada, non ne aveva bisogno, la sapeva. Avvertiva pure il suo stupore, e la cosa lo divertiva sempre. Di nuovo, le labbra si increspavano in un sorriso che spezzava la fissità del volto, da maschera del teatro greco.
-Sai, i colori non sono solo quelli che tu vedi ora. – Ripeteva in quelle occasioni, e lui annuiva, non del tutto convinto.
Adesso ha la sensazione di cominciare finalmente a capire.
Si tocca il volto con una mano, e ne percorre i primi leggeri solchi; premendo con forza può intuire la somiglianza col vecchio. Abbassa le palpebre e sorride, tranquillo. Adesso sa. Non guarda più davanti, ma vede ugualmente. I colori non sono solo quelli che tu vedi ora. I colori non sono solo quelli che guardi.
Non sa per quanto tempo resta così, forse istanti, forse lunghi minuti. Infine apre gli occhi, si guarda nello specchietto retrovisore, gli tornano indietro bui, nella penombra dell’abitacolo, per un istante.
Guarda la strada sgombra davanti a sé e accellera impercettibilmente.
Ha visto molto, ma non ancora abbastanza.
Roma, 15 marzo
“Perfetto”, ha detto. “Perfetto, facciamola”.
Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. “Coraggio, fratello, disegna”, ha detto. “Disegna. Vedrai. Disegna”, ha detto il cieco.
E così ho cominciato.
(Carver, Cattedrale)
La città irreale degli uomini vuoti di Duccio Trombadori
Il tratto entro cui si trovano chiuse le figure disegnate da Paolo Fiorentino è un contorno sicuro e sufficiente ad esprimere il ritmo di forme sottintese di un essere che supera la superficie prospettica e la positura in essa dei particolari :l’aspetto dei volumi ,delle grandi masse architettoniche si afferma al di là del colorito e delle sagome che circoscrivono lo spazio della pagina bianca . Fiorentino possiede un istinto naturale a descrivere l’emozione raffreddata ,una teoria di spettri e fuochi fatui della memoria ,apparizioni disincarnate ,tracce di passato immerse nel pneuma di un sogno ad occhi aperti . Neoclassico per vocazione ,il suo lirismo immaginoso affetta una ambizione stilistica da nazareno moderno che celebra una simbolica astratta sull’altare di figurazioni volutamente prive di contenuto . Si resta impensieriti di fronte al senso del grandioso e del tranquillo suscitato dalla teoria di monumenti inusitati ,urbanità senza tempo e senza luogo ,maschere umane sottratte ad ogni modello,e pure contornati come i calchi di tipologie preesistenti ,se bene mai viste .Il pittore abbassa il fuoco emotivo ed esegue “con flemma ” , come suggeriva il Winckelmann : e di conseguenza ci troviamo di fronte alla celebrazione di rappresentazioni ideali,segnali di un bello assoluto da ricavare grazie alla nettezza dei profili ,l’equilibrio di geometrie ripetute come ornamento e decoro dello spazio . Un Ledoux o pure uno Schinkel non avrebbero potuto sognare altrimenti la loro panoplìa di forme significative in allusione ad una Grecia tanto ideale quanto irreale .E parimenti Fiorentino costruisce le sue tipologie urbane con la meticolosa precisione degli ordini e delle proporzioni che paiono estratti da un manuale di civiltà sepolte con i loro canoni e inderogabili misure .Passione archeologica ,emozione fredda ,romanticismo che prende le distanze da sé stesso :ecco un racconto per figure che appaia l’uomo al monumento e al minerale secondo la regola dello scavo paziente e della classificazione di sentimenti dissipati nella polvere del tempo .Abitare, vivere, vedere , stare : i modi esemplari della vita comunitaria si rispecchiano nelle immagini di Fiorentino come residui di una vitalità perduta.
E tutto questo scenario somiglia al nostro mondo: dove i palazzi sembrano navi, i negozi sembrano cliniche , le chiese sembrano garages ,e le scuole sembrano prigioni .Una volta il pittore Fabrizio Clerici raccontò a Leo Longanesi :”Mi trovai a Wall Street di domenica come in un deserto .Non c’era un’anima,un’anima,una sola .Un silenzio compatto,acuto . Le case non avevano più misura,non c’era rapporto con gli uomini,si perdeva la proporzione . Mi sentivo per la prima volta solo,tanto solo che non c’era nemmeno io. S’indovinava che nell’interno di quei palazzi non c’era rimasto nessuno,che nessun rubinetto gocciolava,che non viveva nessun tarlo in quei mobili di ferro .Soltanto gli orologi continuavano ad andare ” . La ciminiera di fabbrica col fumaiolo ,e il prospetto dei palazzi a lunghe balconate ,le rampe in sopraelevazione ,i corridoi lunghi di cemento che portano in ogni dove : sono questi ingredienti figurativi a raccontare la città misteriosa di Paolo Fiorentino che per il suo vezzo “Novecento ” non è meno attuale della spettrale figura di una New York simbolica ,quella del “giorno dopo ” ,o quella così palpitante di terrore disumano ,come la mattina fatidica dello undici Settembre. E’ la città dell ‘Uomo Scomparso , tanto bene intuita da Fabrizio Clerici ,artista che condivide il medesimo sguardo di Fiorentino appuntato sulla freddezza surreale enucleata dall’immaginario del nostro tempo . Su cieli uniformi ,ben lisciati da una patina d’aria biancastra di sole malato ,Paolo Fiorentino stampa il profilo di basiliche impensate ,con frontoni ad arco romano ribassato ,punteggiate da una fila di bucature al modo di finestre senza vetri ; oppure ,appaiono edifici quadrangolari ,inusitate “ cube ” col tetto a capriata ,circondate da piloni e strade in elevazione sempre deserte e come attraversate alla eco di fragorose mute di autovetture dissolte nell’etere per distanze siderali. Il pittore disegna con mano ferma e costruisce gabbie ben congegnate a mettere in scena l’immagine di quella Unreal City già vaticinata dalla voce poetica di Eliot nella “Waste Land” , formicolante di folla spettrale ( “non avrei mai creduto che morte tanta ne avesse disfatta ” ). Ma soprattutto l’effetto desolato della città tiene presente quella eliotiana rapsodia di notte ventosa con l’immagine della mezzanotte dove “per tutti i rettilinei delle strade/serrate in una sintesi lunare/incanti lunari che bisbigliano/Dissolvono i piani della memoria/e tutte le sue piane relazioni/le sue divisioni e precisioni,/Ogni lampione che oltrepasso/batte come un tamburo fatale/e attraverso gli spazi del buio/la mezzanotte scuote la memoria come/un pazzo scuote un geranio appassito ” . E’ riferita brevemente , per questi versi, la medesima “stimmung” contenuta nello sguardo di Paolo Fiorentino , tributario di una poetica del distacco ermetico e del simbolismo figurativo .I suoi disegni intrecciano singolari contraddanze di fuochi fatui o di Pierrot innamorati della Luna e dunque degli spazi bagnati da una luce priva di calore vitale. Sono emblemi di un canto solitario che appunta il suo motivo sulla maschera di un mondo improvvisamente ridotto alla apparenza di sé ed osservato in lontananza temporale come puro documento archeologico . Anche la figura umana assume il volto di una implorante reliquia e commuove soprattutto per la singolare presenza delle sue fattezze esemplari . Disegnati con la cura delicata della matita e modellati dal tocco lieve della tempera , gli uomini di Paolo Fiorentino guardano attraverso il taglio scuro di occhi senza pupille, ma non si atteggiano con la positura inerte dei bambocci e dei manichini : sono piuttosto uomini vuoti ,o svuotati della loro linfa vitale .Essi assomigliano agli “hollow men” di Eliot , privati della vista nella valle di stelle morenti in un mondo giunto alla fine ,”non già con uno schianto ma con un piagnisteo ”.E non per caso quelle immagini umane sono concepite in accordo col motivo spiraliforme della conchiglia ,disegnata anch’essa nel suo guscio vuoto e splendente di fatui bagliori : anche in questo caso la vita ha subito un improvviso slittamento , è corsa altrove . In questa versione appassionata ed esangue della immagine ,Paolo Fiorentino si unisce poeticamente alla stilistica di Flaxman , Piranesi e Fussli , mettendo in scena un panorama di carceri ,monumenti , quinte di teatro elisabettiano e orridi sublimi , ripescati nel vocabolario della storia dell’arte e nelle immagini suggestivamente interpretate della metropoli moderna . Anche il mistero metafisico , sembra dire il suo spettacolo dipinto , è già esteticamente dietro le nostre spalle : di esso non rimane altro che l’ombra leggera , lievemente stampata nella nostra memoria come presagio di un mondo in cui sarà ben difficile misurare la temperatura del vivere ,dell’abitare e dell’amare al di là dell’umano .