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STUDIO ANDREA GOBBI
Via dei Lucani 33/A
00185 ROMA
Tel/Fax +39-06-44340151
andreagobbi@tiscalinet.it
C.F. GBBNDR67H13E897T
PAOLO FIORENTINO, “DISEGNI”
dicembre 1998 - gennaio 1999
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Lo STUDIO ANDREA GOBBI

Con questa prima mostra, Andrea Gobbi inaugura la sua nuova attività espositiva, mettendo il proprio atelier a disposizione degli artisti coinvolgendo li in piccole esposizioni di qualità.
Non si tratta di una vera e propria galleria, poiché essendo nello studio-abitazione dove ogni giorno Andrea dà forma alle proprie idee e progetti ed accoglie le numerose persone che qui si recano, per avere consigli sull'arredo e sugli oggetti da lui interpretati; consigli che si concretizzano in una armoniosa linea decorativa capace di dare alla casa l'impronta delle proprie emozioni.
L'intenzione di questa serie di mostre è quella di dare agli artisti la possibilità di esporre i propri lavori in uno spazio che non presenti alcun tipo di condizionamento, al contrario, che offra la massima libertà per ciò che riguarda la propria scelta espressiva.
L'ambiente dell'atelier è per sua natura il luogo dove sperimentare, presentare, confrontarsi e collaborare dando vita ad un ambiante creativo ideale, ed è proprio questo lo spirito con il quale Andrea ha deciso di cominciare a dare spazio ai numerosi lavori degli artisti di talento.

I SEGNI DEL POETA

Un foglio di carta e una matita, la luce di una lampada elettrica, un piccolo studio accogliente, e il gioco è fatto.
La semplicità con cui Paolo Fiorentino ci presenta i suoi disegni, così puliti ed immediati, apparentemente senza complicazioni o rimandi, sembra dirci che per realizzarli c'è bisogno solo di questo.
Eppure Fiorentino è uno dei pochi pittori contemporanei che si dedica alla pratica del disegno con la stessa cura ed attenzione di un artista rinascimentale.
Egli ha restituito al disegno la sua antica indipendenza dalla pittura, sottraendolo al destino di semplice bozzetto il cui valore è legato all'esistenza di un'opera successiva, e lo ha riportato a "padre delle tre arti", come lo definì il Vasari. Ci ricorda, in tal modo, il grande prestigio raggiunto dal disegno nell' epoca in cui Leonardo e Michelangelo gli attribuirono un valore autonomo, connesso direttamente all' originalità dell' artista, e lo resero l'espressione diretta del genio e della maestria.
La matita diviene strumento di ricerca al pari del pennello, mezzo per interpretare e tradurre le elaborazioni del pensiero. Segni, ombre, appunti, e macchie riempiono i fogli di quella graziosa ed antica cartella che Fiorentino non lascia mai a casa. Non per ritrarre dal vero le scene che gli si presentano, poiché non si tratta di realismo ripreso en plein air, ma forse per non lasciare un importante mezzo di comunicazione di cui in qualunque momento si potrebbe aver bisogno.
La realtà che egli ci propone non è più reale di un ricordo o, a volte, di un sogno o di una visione. Non è veduta o paesaggio, bensì uno scenario del pensiero, il "disegno mentale" leonardesco capace di fissare i moti dell'idea.
Grandi muri lisci, alte torri che svettano verso un cielo terso, abitato, forse, da poche nuvole, tetti e piccole porzioni di edifici, a volte case, sono le architetture che vanno a delimitare gli spazi "scenici" nei quali Fiorentino esprime la sua personalissima poetica. Queste linee marcano i fogli, delimitando il campo visivo oppure rivelando ciò che non deve più essere nascosto, ma svelato agli occhi di coloro che guardano queste composizioni, attenti e curiosi, in attesa che qualcosa accada, che qualcuno si manifesti, che giunga un deus ex machina a scuotere l'atmosfera sospesa di quelle incantate e ben definite scene romane.
Ma gli unici "abitatori" di questi spazi sono le chiome degli alberi tipici della vegetazione romana, pini, cipressi e platani, e le ombre, care a Fiorentino, che enfatizzano l'atmosfera misteriosa ed insieme romantica - nel senso che la letteratura dà a questo termine- di tutta la composizione.
Non si può non pensare alla Scuola Romana e al Realismo Magico di pittori come Mafai, Donghi, Trombadori, Capogrossi, della cui tradizione, il giovane Fiorentino è uno dei più sicuri continuatori. Non si può non pensare alla metafisica di de Chirico, alle sue solitudini e alle sue nostalgiche "partenze", a quelle ombre inquietanti che il maestro ci propone come uniche presenze su tele abitate per lo più da luci, da architetture e da assenze. Infine, non si può non pensare anche al mito, per la composizione scenografica, che rimanda immediatamente al teatro greco e ai suoi allestimenti, e poiché, in alcuni casi, quei segni delicati con contorni umani assumono le sembianze di antichi guerrieri o di dei mitologici con il loro noto corredo, come protagonisti di una messa in scena tragica.
Sono percorsi sentimentali, rapide incursioni nel sogno, moti di un pensiero che cerca, che non si ferma a guardare solo la realtà, per quanto bella sia. Sono il riaffiorare dell' antichissima cultura classica che ogni romano vero porta con sé nei cromosomi anche senza aver consultato molti libri, la passione per la bellezza fine a se stessa di cui ci parlano molti angoli di Roma, la consapevolezza di un glorioso passato e del compito attuale di erede e continuatore.
Tutto questo sono i lavori di Fiorentino, delicato poeta in equilibrio tra presente e passato, tra realtà e fantasia, tra affermazione e suggestione.

Roma, 26 novembre 1998        Alessandra Maria Sette

 

Lo studio non doveva essere suo. Lui era lì, per gentile concessione di un amico che lo ospitava. Non lo avevo mai visto prima: se anche era accaduto non lo ricordavo. Ma, dopo che mi fece vedere un suo piccolo dipinto - un olio dai colori preziosi come smalti, una veduta romana come avrebbe potuto dipingerla un artista del sette o dell'ottocento, con lo sguardo puro e capace di incantamento - capii che non lo avrei mai più dimenticato.
Capii che, con quel piccolo dipinto, egli era entrato per sempre nella mia vita e nella mia professione. Seppi subito, dico, che avrei «inventato» un piccolo movimento a uso e consumo di quella sensibilità pittorica. Tanto coraggio di vivere e vedere le cose come al di fuori - o forse sarebbe meglio dire al di sopra - del tempo doveva essere premiato. A questo mi sarei dedicato.
Come nasce, in un critico d'arte contemporanea, un innamoramento per l'opera di un artista mai conosciuto prima? Qual è la flagranza (o forse proprio la «fragranza») che giunge al suo cuore, a subito convincerlo della bontà di quell' espressione, di quel racconto, di quella idea, di quel modo di concepire la visione delle cose? Misteri dell'agnizione, direbbe qualcuno con parola da cercare sul vocabolario.
lo ho sempre inteso ascoltare i suggerimenti dell'intuizione primaria, mai fidandomi della correzione eventuale e successiva della ragione. Se una cosa mi piace e subito mi innamora, non tradirò mai quella irripetibile sensazione di esordio, ricordandola sempre come uno dei momenti intensi e bellissimi del godimento artistico.
Così accadde, e continuò ad accadere, sino a oggi, sino a questo preciso momento in cui sto scrivento di Paolo Fiorentino, della sua pittura come del suo disegnare.
Ecco, le linee della matita formano luoghi urbani che raccontano una città del vuoto e del silenzio, percorsa da ombre di viventi dell'altrove. Presenze turbative, apparizioni di memorie che provengono da mondi paralleli e che forse possono entrare in comunicazione tra di loro, da un momento all' altro...
La malìa che i disegni di Paolo Fiorentino esercitano a uno sguardo attento - penetrante nel loro tessuto e nell'indicazione urbanistica di palazzi, edifici e qualche monumento - nasce dall'elemento della fantasia che interviene improvviso in una organizzazione scrupolosa, a volte persino razionale, che di per sé non farebbe presagire nulla di allarmante. Le sue visioni urbane sono simili a indicazioni di città ideali, e un serio architetto potrebbe trame infiniti elementi di ispirazione costruttiva, se solo si riuscisse ad amare nuovamente l'architettura a misura antropometrica.
Quasi sempre, davanti ai nostri occhi, la città della maggior parte di questi disegni si erge come un muro, alle volte quasi impenetrabile, dietro di sé rivelando, nella parte più alta, lo sviluppo di edifici storici e nobili; ma da questo intrigo cittadino come volendoci escludere: un senso di riservatezza difesa a oltranza dagli insulti del tempo corrente. Così ci appaiono.
I giochi chiaroscurali che la fantasia di Fiorentino riesce a ottenere nel disegnare questi luoghi, che sono luoghi di idee, ma anche di culto - momenti di una poesia «tacita e assorta» che competono al suo cuore e che si riversano nella nostra intimità con una efficacia che noi stessi non sapremmo definire -, sono ottenuti con la semplicità d'aspetto di una perizia che ama schermirsi, sottrarre a se stessa l'eccesso del sublime, per raccontarsi nel territorio del sottotono, del dimesso e un po' casuale risultato.
Egli, si sa, è romano ed esibisce il fatalismo tipico di chi, nato e cresciuto nelle strade e negli intrighi dell' «eternità», del «caput mundi», sente che null' altro di tanto compiuto può essere ancora realizzato. La sua città ideale è dunque Roma; ma quale Roma se alle volte quasi non la riconosciamo, non fosse per un sentimento che la suggerisce a chi la vive essendovi nato?

Arnaldo Romani Brizzi