Le Case
Design
Mostre
Contatti
STUDIO ANDREA GOBBI
Via dei Lucani 33/A
00185 ROMA
Tel/Fax +39-06-44340151
andreagobbi@tiscalinet.it
C.F. GBBNDR67H13E897T
DAVIDE FAGIOLI, “EX VUOTO”
marzo - aprile 2000
Galleria | Esposizione | Bibliografia 
LA STIMA E’ UNA COSA SERIA

Parto subito dai “coatti” per chiudere un malaffare classificatorio. David Fagioli, come confermato dalle opere, crede nei tratti storici dei ragazzi di periferia. Ama gli sguardi duri, la crudezza drammatica dei lineamenti, il sarcasmo abnorme del loro stile. Con la scultura ne ha sviscerato la memoria fisiognomica lungo un antiaccademismo oltre la tradizione. Insomma, bravo Fagioli per la tecnica, l’intuito umano, l’intelligenza volumetrica, il rigore non indifferente. Dove starebbe il malaffare? Diciamo che la gente se ne approfitta, si adagia su allori altrui, identifica l’autore con un tema e gli timbra un tatuaggio di riconoscibilità. Come direbbe un coatto permaloso ma colto: nun dite cazzate, guardàte le opere de questo. Davvero da paura e voi, me raccomanno, spremeteve meio er cervello (messaggio solo per i fruitori superficiali).

L’artista parla di coatti per andare oltre, usa una silenziosa complessità e non si limita al facile ritrattismo del coatto tipico. A questo punto, nel sottolineare una produzione senza bassi, cambiamo strada: David Fagioli non è lo scultore dei coatti. O almeno, entrando nel gioco della molteplicità, l’autore romano usa alcuni stereotipi per andare oltre. Lui realizza arte scultorea, quella vera e impegnativa. La scultura che fa riemergere l’alone agonistico della lotta con la materia. Un grande studio in periferia, materie grezze, mani ferite e callose, pelle da lavare a fondo e muscoli indolenziti. A qualcuno piace così, caldo e romantico per un pizzico di sana letteratura. Il fatto è che di ciò si tratta: lo scultore doc richiama un mastino dal gesto nobile, un trattore vestito di bianco, un rullo che stira senza rompere. Fagioli mastica i volumi con la lucidità che avevano i grandi del passato. Conosce ogni segreto del marmo, del gesso e di tante materie leggere. Ma sfrutta la competenza per rompere l’accademismo più dannoso. Gioca sull’ambiguità di un bianco uniforme, manipolandolo per un’evoluzione davvero necessaria. L’autore cammina sul campo minato della tradizione figurativa, tra bassorilievi, busti e obelischi monumentali. Ne vive le alterazioni, i drammi rivoluzionari, le valenze temporali. D’improvviso, attraverso l’intelligenza del mettersi in discussione, i suoi lavori acquistano il valore pieno dell’oggi. Fagioli inserisce oggetti del presente, frammenti generazionali, stranezze insospettabili. Risucchia nella classicità ogni leggerezza attuale, svoltando oltre la tipicità secolare. Prende i nuovi feticci e gli offre un tributo scenografico. Ipotizza ciò di cui hanno bisogno gli oggetti popolari: isolarli nello spazio per renderli altro da sé. Facendoli volare, finalmente, tra il simbolo e il legame con la realtà. Eccole, le scarpe che si librano sopra di noi, le trombe da stadio che suonano sopra di noi, gli antifurti da scooter che si chiudono sopra di noi, i capelli rasati che spuntano sopra di noi (e poi come dimenticare il missile incombente, i nuovi quadri che scavano nella materia e trovano la pittura, i pannelli digitali che riconquistano l’utopia dentro Roma). Mentre i feticci si librano tra la memoria e un futuro sempre più “classico”, qui sotto cresce la scultura: e qualcuno, capendo i minuti del presente, rende leggero il gesto fisico. Attuale, classicamente nuovo.

Testo di Gianluca Marziani

PALESTRA KOUROS

Sospese su un filo sottile di ambiguità, dove la compostezza e il rigore della statuaria classica e neoclassica sono utilizzati per alludere a realtà urbane contemporanee, le ultime opere di David Fagioli sembrano parlare un linguaggio colto per descrivere il mistero di un’umanità periferica rinchiusa all’improvviso nel gesso, nel candido nitore di quel glorioso bassorilievo (quasi uno “stiacciato”) che testimonia il primato della scultura nella nostra penisola, dalla Colonna Traiana ai Pisano, da Donatello a Michelangelo, da Baccio Bandinelli fino ad Algardi, a Canova, ad Arturo Martini e oltre. Uno storico dell’arte innamorato dei riferimenti “alti” cercherebbe di trovare nell’opera di Fagioli agganci con le opere di de Chirico, che ritrovava la perfezione arcaica delle antiche città di Grecia nella disposizione delle periferie, nello “spettacolo incoraggiante (…) di tutti quei quartieri geometrizzati che in certi avanticittà fanno pensare il mare prossimano”. Ancora lo stesso storico pervaso da un furore “intellettualizzante” cercherebbe appigli nella “classica” tragicità che sembra segnare le periferie di Sironi, nelle figure degli emarginati protagonisti di molte opere di Medardo Rosso o di Arturo Martini, senza dimenticare i riferimenti a certi modelli compositivi di derivazione futurista che innegabilmente contraddistinguono i tagli “dinamici” di molte sculture di Fagioli. Una lettura “purovisibilsta” di queste sculture di Fagioli dovrebbe invece inesorabilmente apprezzare la loro nitida perfezione di opere realizzate con una tecnica raffinata di rilievo incavato “in negativo”, dove l’accurata definizione anatomica delle membra dei personaggi rappresentati sembra attrarre e imprigionare la luce, liberandone soltanto il diapason più intenso, i bagliori più estremi che, palpitanti e corruschi, scorrono sulle superfici come un velo d’acqua che accarezza la pietra. Un altro critico d’arte non potrebbe invece resistere alla tentazione di collegare Fagioli alla tradizione “concettuale” del gesso e del calco di certe opere di Paolini, Pistoletto, Kounellis o Parmiggiani; di ritrovare nel lavoro di questi artisti (Paolini in particolare) l’antecedente di certi giochi di rispecchiamento, di ambivalenza e di dualismo metamorfico dei rilievi in incavo del giovane scultore che si aprono a letture doppie e a rimandi multipli tra antico e contemporaneo. Un’ulteriore interpretazione non potrebbe infine dimenticare il Fagioli più “tecnologico” che utilizza resine plastiche per alcune sue teste, materiali vinilici per i loro capelli o copricapi, gli strumenti digitali usati dalla più moderna scienza del restauro o la fotografia con inserti metallici, di luci elettriche, di catarifrangenti. Dunque l’opera “multipla” di Fagioli può provocare anche una molteplicità delle letture del critico, critico che in questo caso si trova fecondamente costretto a fondare la sua esegesi sulla varietas (che era uno degli aspetti più apprezzati nell’arte dell’antichità), sull’apertura alla compresenza in una sola opera di aspetti differenti, apparentemente discordanti, fusi dall’artista nell’unità della sua scultura. Fagioli nei suoi rilievi in incavo più recenti ha sviluppato le tematiche del suo precedente lavoro realizzando figure tracciate nel gesso ancora una volta sospese tra la citazione “antiquariale” della statuaria classica e la gestualità della vita contemporanea. Come in un’allucinazione metafisica pietrificante, i giovani della periferia romana subiscono una metamorfosi che li trasforma in statue oppure (la statua che si è mossa) le antiche sculture annoiate da millenni di polvere scendono dai loro piedistalli per fare una telefonata o prendere un aperitivo. L’Ercole Farnese non è più appoggiato alla clava ma (anche se ancora nudo e scultoreo) discute di calcio al bancone di un bar, l’Apoxyomenos di Lisippo abbandona i Musei Vaticani e, dopo aver ascoltato commenti idioti per centinaia di anni, litiga finalmente con qualche turista saccente e ignorante , un antico “arringatore” inforca un motorino e utilizza il gesto tradizionale dell’adlocutio per inveire contro gli automobilisti nel labirinto intricato del traffico romano. Ma forse lo scultore (che ha il suo studio in periferia) non vuole dare vita alle statue ma cerca invece di rendere solenni, “imperiali” e ricchi di una nuova dignità i giovani che incontra ogni giorno nelle strade di Roma e del suo quartiere. Del resto Fagioli parlando delle cavità dei suoi rilievi in negativo parla anche di “vuoto sociale”, di quel vuoto e di quell’abbandono che (nonostante molti discorsi spesso retorici e pretestuosi) sembrano ancora segnare la situazione e la vita delle periferie metropolitane. In ogni caso Centocelle, dove Fagioli ha il suo studio, è comunque un luogo fortemente segnato dalla presenza della classicità e dell’antico (anche nella disposizione delle sue vie costruite ortogonalmente come per imitare un antico castrum), a partire dal suo nome derivato dalle cellae, le stanze delle caserme della cavalleria romana imperiale, continuando con i maestosi edifici antichi che segnano i suoi confini: la villa della famiglia imperiale dei Gordiani sulla via Prenestina (la gordiana structura ricordata nel più celebre e straordinario libro illustrato del Rinascimento, l’Hypnerotomachia Poliphili) e il mausoleo di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino il Grande, sulla via Casilina, purissimi modelli di architettura che hanno saputo influenzare molti artisti del Rinascimento, tra cui Bramante e lo stesso Michelangelo. Ma Centocelle (insieme a tutta la periferia romana) sembra accompagnare Fagioli anche in molti suoi aspetti attuali, ad esempio nella fisicità plastica e scultorea dei giovani frequentatori delle sue palestre, nella prepotente robustezza dei loro corpi, la cui possente membratura sembra riflettersi nelle opere dello scultore dove la possente muscolarità dei personaggi rappresentati appare sospesa tra cultura figurativa e cultura fisica. E proprio le palestre più “storiche” di Centocelle sembrano dare ancora una volta ragione a Fagioli, con i loro nomi di inoppugnabile origine greca, di una grecità inoltre non ellenistica ma di chiarissima matrice classica e addirittura arcaica come Olimpia o Kouros.Nella Palestra Kouros un culturista alto due metri e molto miope diventa un personaggio omerico, si trasforma in Er Ciclope che solleva quintali di pesi nella speranza di vendicarsi di un nuovo Ulisse, ancora alla Kouros un giovane dai ricci copiosi e gelatinosi diviene Er Medusa, il cui sguardo si riflette come quello di Narciso negli specchi della palestra senza incontrare però il gelo della lama di Perseo.   Ed è forse in questa sospensione tra lo sguardo pietrificante di Medusa e lo sguardo autocompiaciuto der Medusa che si colloca l’opera di Fagioli, il suo metamorfico gioco di riferimenti e di allusioni, il suo discorso apparentemente algido (ma in realtà appassionato) sull’ambiguità di Roma, della sua vita quotidiana e della sua realtà urbana che - a pochi metri di distanza - da sempre avvicina il degrado allo splendore, il fasto allo squallore, la miseria alla magnificenza, in una misteriosa commistione di contraddizioni che il candore del gesso di Fagioli riesce a rappresentare con l’ironia e l’icasticità iconica che convengono ad un luogo fortemente segnato dalla presenza delle immagini come la Città Eterna.

Testo di Lorenzo Canova

Javier Rodrìguez Leonardis scrve, Le opere presentate in questa personale sono il risultato di anni di studio sull'anatomia etnica dell'antichità, ove centurioni e legionari della Roma imperiale simulavano la propria superiorità anatomica tramite l'uso di armature che esaltavano i pettorali ed elmi che incrementavano l'altezza. L'artista reinterpreta il concetto dell'apparire strategico dell'antichità e lo trasforma nell'apparire dell'essere, contrapponendosi all'apparire superfluo dei gadget che oggi contorna la nostra esistenza. Figure nude, forti e delicate nel contempo, che interagiscono con un ambiente vuoto senza gadget, senza tecnologia; un ambiente che comunica direttamente coll'essere e da esso viene modellato. Un uomo che lancia una monetina e la fa rimbalzare sulle onde di un oceano che non c'è; un uomo che siede e medita sulla panchina di un parco che non c'è; un uomo che attende appoggiato sul bancone di un bar che non c'è; situazioni infinite della quotidianità dove una solitudine apparente viene colmata coll'essere ed un'ambiente vuoto diviene “ex vuoto”.