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RICHARD HAMBLETON, “SHADOWS AND LANDSCAPES”
dicembre 2002 - gennaio 2003
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 RICHARD HAMBLETON
“Shadows and Landscapes”
 t
esto in catalogo ALESSANDRO RIVA

a cura di

ANDREA GOBBI

Richard Hambleton, dalle sagome al paesaggio

Doveva essere l¹84 o l¹85 quando vidi per la prima volta una sagoma di Richard Hambleton. Se ne stava, nera e minacciosa, acquattata su un muro mezzo scrostato in via Brera, proprio di fianco al bar Giamaica ­ e dio sa quanto poteva aver di simbolico, per tutti noi, il fatto che quel pazzo d¹un americano fosse andato a farla proprio lì. Per tutti noi, che a quell¹epoca avevamo vent¹anni o giù di lì, quella strana sagoma, tracciata a vernice nera con un piglio deciso e uno stile ruspante nell¹angolo più buio della via ­ quello della pisciata di mezzanotte, suppergiù ­, a metà strada tra l¹espressionismo astratto e il fumettistico (e non sarà un caso se la prima associazione che feci, io che a quell¹epoca mi bevevo già da due o tre anni tutto Ranxerox e Zanardi su Frigidaire senza perdermi un solo numero, ma che in fondo, soltanto qualche anno prima, mi leggevo avidamente ­ e fu forse il primo fumetto che mi fece davvero sognare ­ proprio l¹Ombra sul Corriere dei Ragazzi, strano traslato fumettistico dell¹Uomo invisibile di wellsiana memoria, creato, guarda caso, da un grande del fumetto e di tutto ciò che sa di horror e di mistero come il buon vecchio Alfredo Castelli); per tutti, noi, dicevo, vedere quella strana ombra nera e minacciosa di fianco al Giamaica rappresentò una violenta scossa elettrica. Eravamo abituati alla presenza, in fondo ben più rassicurante perché strettamente e radicatamente milanese, di un C.T (per chi non c¹era a Milano in quegli anni, il vecchio pazzo, anarchico o che altro, col carretto pieno di cani che andava in giro scrivendo sui marciapiedi con la vernice bianca: LA CHIESA UCCIDE CON L¹ONDA ­ e non sto a dirvi quanto gli fossimo stati grati, all¹epoca, per quelle piccole grandi provocazioni iconoclaste); eravamo abituati, dicevo, agli sberleffi di un C.T., ma non avevamo ancora avuto la sensazione che le strade di New York (se volete, il simbolo vivente della globalizzazione, in fondo, anche se all¹epoca ancora non sapevamo neanche che roba fosse) stesse entrando con tutta la sua carica di violenza, di strappi e di contraddizioni direttamente nella nostra vita, sui nostri marciapiedi e sui nostri muri, in breve in casa nostra. Per noi, o per chi di noi seppe rendersene, seppure confusamente, conto, quell¹ombra di Hambleton di fianco al Giamaica rappresentò proprio questo ­ la fine di un confine chiaro, della semplicità delle scritte sui muri che conoscevamo fino ad allora ­ ³fasci al muro² e ³comunisti di merda², e via di questo passo ­ e l¹inizio di un¹epoca in cui tutto ­ nell¹arte, nella politica, nella vita quotidiana ­ si sarebbe fatto più confuso, aggrovigliato, più sottilmente ma meno delineatamente inquietante e minaccioso.

L¹ombra che ci spiava da quei muri mezzo scrostati era un ubriaco, un tossico, un pazzo o un disperato (quelli che terrorizzavano una New York che non aveva ancora conosciuto la ³tolleranza zero² di Rudolph Giuliani, ma che ogni giorno ci rimandava, invece, dalle pagine della ³nera², le sue notizie di rapine in metrò e di stupri al Central Park, o che ci raccontava ­ erano più o meno gli stessi anni ­ dalle pagine di quel grande affresco contemporaneo che era il Falò delle vanità, la sequenza di una città divisa in più piani, di qua i ricchi, di là i disperati, e in mezzo la retorica populista della stampa e dei predicatori neri); ma l¹ombra di Hambleton era, forse, anche quella di un parente, di un amico, di una minaccia più sottile, più ambigua e più familiare, una minaccia che piano piano maturava sotto la pelle di una città e di una nazione che perdeva lentamente ma inesorabilmente la sua integrità sociale per diventare né più né meno che uno scannatoio, proprio come quell¹America di cui leggevamo solo sui giornali ­ fatta di figli che ammazzano a fucilate (o a coltellate) i genitori e di vigilantes privati in stazione e sui metrò per difendere i cittadini inermi dagli stupratori. Richard Hambleton in quegli anni girò tutte le capitali europee ­ da Londra a Parigi passando appunto per Milano ­ vergando sui muri quelle sue strane e rozze sagome in vernice nera. Quelle ombre furono uno sberleffo, uno schiaffo (seppure tracciato con insolita leggerezza e ironia, che mescolava espressionismo e pop) proveniente direttamente dai sobborghi di Manhattan verso un¹Europa che si credeva forse ancora immune dal morbo della violenza e della paura. Quello che, qui in Europa, si sa molto meno, è che in questi anni, Hambleton ha continuato a lavorare. E lo ha fatto non solo e non tanto trasportando, come i suoi compagni di strada Keith Haring e Basquiat, le sue sagome nere sulla tela, ma spostando il tiro, cambiando soggetto e trasformando ­ pur rimanendo fedele a se stesso ­ il suo stesso lavoro. Hambleton ha infatti trasportato il suo stile gestuale e sintetico in un campo, quello del paesaggio naturale, che oggi è stato portato al centro, che lo si voglia o no, del dibattito artistico ed estetico: quel paesaggio che sta rischiando di scomparire, non solo materialmente ma anche idealmente, come concetto stesso, dal nostro panorama mentale, quel paesaggio naturale che oggi noi, come i nostri progenitori tra fine Settecento e primi Ottocento, sentiamo di dover simbolicamente riscoprire perché nella sua memoria, nella persistenza della sua memoria profonda risiede la sua (e la nostra) stessa salvezza, oggi viene riletto e ripercorso dagli artisti più sensibili come una strana fonte a cui abbeverare la nostra fantasia collettiva prima di un nuovo, spaventoso diluvio universale. Hambleton si inserisce nella scia di questa riscoperta del paesaggio con le armi che lo avevano reso uno dei grandi protagonisti della street art americana degli anni Ottanta: con la passione di un Turner redivivo, con la gestualità di chi ha nel sangue l¹espressionismo astratto e l¹ironia di chi è cresciuto con il pop e con i mezzi di comunicazione di massa, Hambleton scava nella nostra memoria profonda dell¹idea del paesaggio per darci un ultimo, terribile grido d¹allarme: un nuovo diluvio è alle porte, la scomparsa del paesaggio è imminente. La memoria, e la poesia, del paesaggio, la sua luminosità, il suo colore inviolato, la sua libertà di farsi pura astrazione, luce, gesto, colore, è l¹unica arma che oggi ancora ci resta ­ che gli resta ­ per sopravvivere.